I segreti nascosti dietro Il Piacere di D’Annunzio (anzi, davanti). Amori, arte e risate d’un gruppo di goliardi idealisti.

In occasione del 150° della nascita di Gabriele D’Annunzio (1863-2013) Mondadori ripubblica tutte le sue opere ed è stata una bella sorpresa trovare sulla nuova copertina de Il Piacere una cara amica della Goliardia torinese fine ‘800.
Infatti vi è riprodotto quel dipinto che fece scalpore alla Triennale di Torino del 1896, ai tempi in cui l’autore Giacomo Grosso era uno dei più celebri ritrattisti d’Europa.
Il quadro s’intitola La Nuda, e, naturalmente, la ragazza non ha niente addosso: è immortalata su un’enorme pelle d’orso.

Giacomo Grosso, La Nuda , 1896, olio su tela
GAM di Torino, part.
In realtà i monumentali dipinti, gemelli, furono due, leggermente diversi, di cui uno è alla Galleria d’Arte Moderna di Torino mentre l’altro appartiene alla Fondazione Cariplo.
Le vicende delle modelle degli artisti, quando non vanno perse nei rivoli della Storia, sono sempre interessanti. Le fattezze della Libertà che guida il popolo di Delacroix, simbolo della nazione francese, son quelle di una delle sue modelle-amanti preferite; la Parigi otto-novecentesca è piena di romanzi veri di questo genere, e ben lo sapeva la scrittrice Judith Krantz che vi si ispirò per il celebre bestseller La figlia di Mistral.
Anche Torino ebbe le sue storie, come quella della bellissima Anita Di Landa che arrivò dalle campagne per fare la modella degli artisti e la primadonna nei caffè-concerto, amata dagli studenti e poi morta di tisi.
La storia di Tilde, invece, della Nuda, è racchiusa in un vecchio libriccino che s’intitola Tempi beati, edito a Torino nel 1949 e mai più ristampato. E’ l’autobiografia di uno dei suoi innamorati, il giornalista e avvocato Arrigo Frusta (pseudonimo di Augusto Ferraris, 1875-1965), che nella narrazione, in terza persona, si chiama Pare.

[Tilde] nacque a sedici anni, sotto i portici di Po, una mattina d’aprile, tra le 11,30 e le 12, l’ora del “Carpano”. Aveva un abito di seta a gran fiori e un cappellino adorno di ciliegie rosse. Pareva la primavera a passeggio. Tutti gli sguardi erano su di lei e tutti i desideri.
(Probabilmente molti studenti assistettero alla scena memorabile perchè via Po è quella dell’Università).
All’angolo di via Bogino si voltò inviperita contro un signore cogli occhiali, che la seguiva da vicino. (p.112)
Era il celebre pittore, che, vedutala passare, n’era rimasto così colpito da cercare immediatamente di convincerla a posare per lui, invitandola nel suo studio, e più lei lo scacciava, più lui la seguiva ripetendo supplicante: “Io sono Grosso…”.
Ma lei non conoscendolo neppure di nome aveva pensato si trattasse di uno sporcaccione e l’aveva liquidato con un: “Grosso o piccolo, se ne vada per i fatti suoi!”

Giacomo Grosso, La Nuda , 1896, olio su tela,
GAM di Torino, part.
Nel corso della sua sfolgorante carriera Grosso fu ritrattista, tra gli altri, dei Savoia, di Papa Benedetto XV, di Arturo Toscanini e di Giacomo Puccini. Ma riuscì anche a farsi strapazzare sotto i portici da Tilde (di cui non conosciamo altro che il nome).
Quando poi le fu spiegato chi era il Maestro, la bella ragazza accettò di buon grado, previo consenso del fidanzato, ma non volle alcun compenso e non posò mai più per nessun altro.
Wikipedia bolla La Nuda come esempio di cattivo gusto e di accademismo: il rapporto di Grosso con la critica non fu buono, a partire da quello scandalo che aveva indotto il Patriarca di Venezia, futuro pontefice Pio X, ad interdire ai cattolici l’ingresso alla Biennale di Venezia a causa del quadro Il supremo convegno.
Anche Tilde dipinta fece scandalo, l’anno successivo, alla Triennale di Torino del 1896.
La sua storia, fin troppo breve (dopo aver lasciato il fidanzato, scompare dalla sua autobiografia) non è drammatica né lacrimevole, bensì profuma di gioventù, spensieratezza e goliardia.
A quei tempi Frusta era uno studente universitario che insieme ai suoi amici Paggio Bruno, San Orso e Tito Livido gestiva il giornale ‘L Birichin. Erano dei veri e propri bohémiens.
Scrivere e divertirsi, ma non solo:
E poi, quante dimostrazioni! “Abbasso il governo!” era il grido preferito. Ed era tabù il palazzo dell’Università. Non potevano le forze di polizia oltrepassarne le soglie. Nè lo facevano. Così si protestava per gli eccidi di Aiguesmortes, per i Garibaldini in Grecia, per Sbarbaro, e per il Cristo di Bovio. E si sfidavano le cariche della cavalleria, guidando i cortei del povero popolo, quando reclamava le otto ore di lavoro. Ci si assuefaceva anche a dirle chiare ai più forti e a voler proteggere i più deboli. E s’imparava a odiare la ciarlataneria ovunque cercasse di nascondersi. Forse portavamo dentro nel cervello grandi illusioni e gran fantasie di sogni. Ma la vita a quel modo era tanto bella! E tutto sorrideva ai nostri diciott’anni: le donne, il presente e l’avvenire.
(pp. 10-11)
Del 1896 è il celebre ritratto La Nuda e, in quello stesso anno, Frusta aveva iniziato l’avventura del giornale.
Tilde compare sulla scena di Tempi beati quando Paggio Bruno entra a precipizio nel circolo studentesco Il Goliardo per cercare l’amico. Chiede ad una certa Santuccia, che gli dice maligna: “Ve lo trovo io! Conosco il vizio della bestia. Da quando sbavuzza per la Tilde, non fa che cacciarsi negli angoli”. Infatti la giovanissima arpia è ben contenta d’andare a stanare i due innamorati nascosti da una tenda, dietro un pianoforte, intenti a baciarsi.
Mentre le due ragazze iniziano a litigare di brutto, Frusta viene portato via da Paggio Bruno. E inizia l’epopea del giornale Birichin: quella sera, al “Sussambrino” di via Po, tra una costoletta al burro frizzante e le trote in carpione, tra fiumi di vino e di scherzi, tra il cameriere che non arriva e viene invocato come “cercopiteco azzurro”, “Zarathustra dei miei corbelli”, “valletto di Belzebù”, vengono decisi i collaboratori, le paghe, le rubriche, tutto ciò che sarà il nuovo giornale. Si tira fino alle tre del mattino. E si brinda a ciascuna delle celebrità delle lettere piemontesi. Intanto Frusta compone il 49° sonetto a Tilde ( inondava i settimanali torinesi con le poesie dedicate a lei) e, preso dall’euforia, immagina che coi proventi del giornale potrebbe affittare tutta per sé l’isola di Armida in mezzo al Po…
Tilde ritagliava dai giornali tutte le poesie che Frusta le dedicava, e poi le appiccicava su un quaderno. Quando Giacomo Grosso glielo prese di nascosto, successe un bel pandemonio!
Non soltanto Tilde era bellissima, ma, a quanto pare, aveva un carattere di fuoco, “amava furiosamente”. E una volta che Frusta, dopo aver fatto all’amore, era intenzionato a tornarsene a casa e lei invece non voleva lasciarlo andare, non aveva esitato a buttargli la giacca e i pantaloni fuori dalla finestra, in strada. Con conseguenti scene goliardiche per riuscire a recuperare la roba….
Il Birichin (chiamato anche gavroche d’ij porti ‘d Po, cioè dei portici di via Po, birichino come il monello di Parigi), era un giornale in dialetto che, prima d’essere acquistato da San Orso e Paggio Bruno, aveva già avuto una sua storia: durò dal 1885 fino al 1924, diffuso non solo a livello locale, ma pure in Argentina, Sudafrica, Australia, ovunque ci fossero emigranti piemontesi.
Le ragazze di quelli del Birichin avevano il diritto di sedersi, in redazione, sul canapè Luigi XV
( in realtà un sofà spelacchiato preso a Porta Palazzo): erano le “Granduchesse”: Tilde, la biondissima Niet, Lina Brumaio. I loro volti furono disegnati dall’amico Gimba sulla copertina della raccolta poetica Faravosche (sempre di Arrigo Frusta) nel 1901.
Il libro trabocca di scherzi, feste, cene, diatribe amorose, notti passate sul terrazzo della direzione a chiacchierare, suonare la chitarra, cantare.
Una volta Così parlò Zarathustra viene prestato ad un’amica con l’assicurazione che si tratta d’un romanzo d’amore tra la principessa indiana Zara e l’ufficiale tedesco Nietzsche.
Zigò è l’inventore del linguaggio ziburico, in cui tutte le parole iniziano con la zeta: ricevuta la visita d’una bella signora, Frusta apre la finestra della redazione gridando al garzone di sotto di portar su una “zimò” e dei “zitor” (traduzione: una bottiglia di moscato e torcetti).
Niet è così brava a cucinare le… “rotondità” di toro, da meritare, dopo una sontuosa cena, la composizione di una poesia memorabile.

tessera del Circolo Sans Gene, forse appartenuta ad Arrigo Frusta.
In Luciana Frassati, Torino come  era, Losanna, 1958.
Il bello succede quando, poco tempo dopo l’acquisto del Birichin, i legittimi proprietari del giornale partono per Napoli dove daranno gli ultimi esami per poi laurearsi:
Il giorno dopo San Orso e Paggio Bruno partirono col treno di Roma. Fu un gran augurar buon viaggio. E abbracci, raccomandazioni: – Ricordati di questo; pensa a quello; ogni numero Casalegno o Pietracqua, niente polemiche con l’antipornografica, rispetto alle gafe! Badate! –
Poi ancora sventolio di fazzoletti. Poi un’onda di fumo, che s’allontana. E Tito Livido, Pare, Tilde e Niet in quell’afosa giornata di maggio se n’andarono all’ “Italiana” a bere la birra. (p. 43)
Festa grande, allora, per i giovanissimi rimasti a Torino che danno fondo alla cassa ben fornita. Così il Birichin nell’arco dell’estate lascia il piccolo ufficio e assume perfino un dipendente. Il capitolo VIII infatti s’intitola “Una direzione di lusso con comodo di cucina e di camere da letto”.
Irresistibile si fa la narrazione quando il tipografo del giornale, infuriato perchè occorre andare in stampa e mancano ancora cento righe, arriva di corsa in redazione dove trova soltanto Frusta che sta schiacciando un pisolino sul sofà. Il quale deve svegliarsi, sorbirsi una lunga predica e poi promettere le cento righe entro un’ora. Ma non ha voglia di fa nulla: provvidenzialmente arriva Zigò…scommettono una cena…e alla fine l’amico, anche se di malavoglia, scrive e resta in redazione, pur d’incontrare la bellissima amica Elvira P. detta Staccione che arriverà di lì a poco.
Di molti personaggi, giovani e giovanissimi nel libro, Frusta racconta anche come fu la loro vita e la loro fine. Lui fu il più longevo, visse fino a novant’anni.
Di Lina Brumaio riferisce:
Morì giovane, come Francine, come la toscanina, in una corsia d’ospedale. Ma Lina Brumaio non morì sola e disperata. I suoi amici goliardi non la trascurarono; alcuni, diventati medici dell’ospedale, l’assistettero amorosamente; altri, avvocati o scrittori, venivano a visitarla a turno. Sul suo tavolino da notte c’erano sempre arance, fiori o caramelle. Era tisica, la piccola Lina. Aveva gustato troppo le dolcezze della vita. Con troppa avidità. E s’era consumata in fretta, come una candela dove ci sia corrente d’aria.
Di chi invece non sappiamo più nulla è Tilde: il suo antico fidanzato, quando ormai vecchio mise mano ai ricordi della propria gioventù, la lasciò nell’ombra, in un’ombra “crepuscolare”.
Non ci resta che immaginare quale fu il destino della bellissima ragazza, guardandola sorridere nel dipinto che ora avvolge Il Piacere di D’Annunzio.
Dietro il Castello Medioevale il tramonto getta tutto il suo oro e le sue gemme sopra la corrente del Po e sulle villette sparse nel verde della collina. Qualche barca, con cappotta di tela a striscioni rossi e bianchi, segue il filo della corrente, dove le rondini sdrucciolano a volo radente con un cinguettio giocondo. Per l’aria ogni tanto passa lo scampanio dei tranvai e lo schiocco dei panni che le lavandaie sbattono sugli scagni.
Sull’acqua, sulle rive, nell’aria e nei cuori ride una dolcezza squisita. Prima che il tramonto s’oscurasse del tutto, Pare finì il 43° sonetto a Tilde, che Chiolero aveva promesso di stampare con carattere elzevir, su carta a mano, in unico esemplare; accese la sigaretta, si stirò ben bene e prese per il viottolo che menava al Monte dei Cappuccini. (pp. 63-64)

Le Granduchesse sulla copertina di Faravosche,
Arrigo Frusta, 1901.
PS: penso di non avere fatto un torto al caro Frusta quando nelle citazioni ho sostituito ogni tanto qualche parola desueta e ho tolto certi riferimenti che al lettore attuale non dicono nulla.
P.D.

-E il resto di cassa?
-Non pensarci, magnifico!
-Quanto?
-Dieci lirone. E le ho salvate dagli artigli di Pietracqua. Capirai, era già al sesto fernet e menta.
-Giusto, in nome della temperanza.
-Che è la quarta virtù teologica
-Ma se non mi lasciate tranquillo – osservò Pare – non finirò mai la lettera ai magnati di Napoli. A proposito, Niet, vieni qui. Che devo scrivere da parte tua a San Orso?

-Eccomi, vengo- rispose Niet – dammi la penna.

-Tracciò un cerchio in fondo alla pagina, e, dentro, ci scrisse: “Quest’è un bacione che Niet manda al caro barboncino”. E restituiva la penna; ma Pare le posò un bacio sul collo.
– Non protestare, non hai nulla da opporre. Come posso mandare un bacio al barboncino, se non lo colgo? Anzi, avrei dovuto coglierlo sulle labbra…perchè fosse migliore.
– Sì, sì, ho inteso. A darvi retta si farebbe sempre l’amore.

…………………
-Ma quanti saremo a tavola?

-Ricordati- soggiunse Pare – che Tilde ha il broncio lungo un metro; non verrà.
– Oh! Quella!- mormorò Livido – dopo che l’han dipinta col sedere al vento, si crede qualcosa di…grosso! – E sentenziò: – Una smorfiosa, che fa più civettaggini d’una bertuccia!


(Arrigo Frusta, Tempi beati. Storie allegre, crudeli e così così. Ed. Palatine, Torino, 1949,pp. 109-110)
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